sabato 29 novembre 2014

IL GALATEO DA STAMPA...RSI IN TESTA

La questione relativa al buon comportamento in una comunità non nasce certo oggi, e non finirà - si spera - certo domani: quel che è cambiata, negli ultimi anni, è l'applicazione di determinate forme di comportamento non solo tra persone vere, ma anche in comunità virtuali. I social network hanno senza dubbio dato grandi opportunità a tutti, e la loro sostanziale assenza di regole, o meglio, la libertà individuale di creazione di contenuti ha fatto sì che le questioni di filtraggio di opinioni si annullassero quasi totalmente, dando adito ad un'assenza di buone maniere digitali spesso opzionale, che scatena la parte peggiore delle persone solo perché "nascoste" da una identità virtuale o dalla mancata comunicazione di persona. Certo non è un obbligo, ma una buona educazione alla Rete dovrebbe essere qualcosa da prendere in considerazione anche nel prossimo futuro, per spronare ad un comportamento civile le nuove generazioni (e anche le non più giovani, a dire il vero).
Occorre qualcuno che ci "prenda per mano" e che quantomeno, attraverso i propri canali e i propri spazi, possa fare questa attività fondamentale di cultura. Due gli eventi che mi sono capitati in questi giorni, e che in un certo modo sono collegati fra loro. Il primo è uno spot trasmesso in questi giorni in TV e che fa riferimento ad un movimento istituzionale che mira ad abolire ogni forma di odio e intolleranza in Rete, sia questa - che so - di carattere etico, religioso, politico o calcistico. Il No Hate Speech Movement è promosso dal Consiglio d'Europa ed è solo una delle tantissime iniziative promosse dalle sovrastrutture europee per farci essere più popolo e meno individui, anche in Rete. E che merita ogni plauso e diffusione del caso. Il secondo, invece, è una nuova iniziativa del quotidiano La Stampa intitolato Il Galateo Facebook de La Stampa: si tratta delle (semplici) regole da seguire per interagire attraverso il vostro social network preferito sulle social-pagine della nota testata torinese. A parte alcuni editoriali, se si vuol dire la propria tocca andare sulle pagine FB del quotidiano e dire la propria: beh, ammesso che si rispettino le regole imposte. Va detto che il quotidiano utilizza il social in modo intelligente: fa rimbalzare i propri articoli per riportare flussi di clic alle proprie pagine; attira, propone e incita alla discussione; e poi ovviamente modera secondo le proprie regole. Ché in fondo, in quegli spazi si è come in casa altrui, anche se "affittuari" poiché si tratta comunque di uno spazio terzo. Ben vengano queste iniziative, sempre: se non c'è educazione di fondo non c'è netiquette. Ma forse, grazie a questi piccoli gesti, può succedere il contrario.

domenica 16 novembre 2014

QUESTO O QU...ELLO

Una premessa, tanto per cominciare: per fare un post del genere ho potuto scegliere tra mille (numero non necessariamente veritiero) titoli papabili. Tipo: Ello world; Finalmente un social b-ello; Design ridotto e poca pubblicità: ecco il social sn/ello; L'alternativa a FB che fa il gesto dell'ombr...ello; Un altro social all'appEllo; Un social che è un gioiello. Davvero, me ne son passate tante per la testa, ma alla fine ho scelto il primo che mi venne in mente. Era doverosa come premessa, anche se non interessa a nessuno. Ma tant'è, ci tenevo a precisarlo. E poi la notizia, ahimè, è già vecchia.

Sì è vecchia, perché di Ello - l'ennesimo social network che prova a presentarsi come l'(impossibile?)alternativa a Facebook in nome di una trasparenza maggiore nei confronti del trattamento dei dati degli utenti -  già non si parla più, o quantomeno non se ne parla come sarebbero le sue intenzioni, vale a dire una nuova community/base-di-dati-personali che scalza Facebook dalla bocca di tutti (facciamo di molti, va'). E' impossibile (per ora) scalzare Facebook dall'immaginario collettivo dello strumento più immediato e accessibile per raggiungere contatti, per ricevere informazioni (della vicina di casa o della vicenda curiosa capitata agli antipodi del globo: per gli eventi extraterrestri, invece, rivolgersi altrove), per restare in contatto con tutti. E' una sorta di obbligo sociale, e con più di un miliardo di utenti, resterà così per molto tempo. Meglio che Ello se ne faccia una ragione: i suoi numeri li ha, ma non è detto che faccia il boom, anzi. E pazienza se l'alternativa "etica" a Facebook alla fine potrebbe trattare i dati come il suo cugino maggiore: è la natura dei social, in fondo.
Ora se di Ello si parla è perché ha già l'etichetta del mezzo flop e, dal primo manifesto che in aperta polemica con le policy del vostro social network preferito si prefigurava come una via di fuga da esso, si è passati ora ad essere una "semplice" alternativa etica, una piattaforma su cui fare altro, su cui fare community in maniera differente. In altre parole, Ello non è per tutti. Ma d'altronde la volpe, non riuscendo ad arrivare all'uva, diceva più o meno la stessa cosa. Chissà se anche lei è finita su Ello.

venerdì 10 ottobre 2014

CHI HA NOMINATO L'ANONIMATO?

Reti sociali, che passione. Per molti utenti, la rete altro non è che una connessione continua con i propri contatti, una condivisione imperitura di contenuti da dover mostrare a tutti i costi, quasi fosse un tentativo di mostrarsi e mostrare la propria presenza digitale, con le conseguenti ripercussioni sull'esistenza reale. E quale miglior mezzo per farlo se non Facebook? Intendiamoci: il concetto di social network è quasi preistorico, e di fatto nasce con l'uomo. Semplicemente, oggi crearsi una rete di interazioni è decisamente più facile: forse è meno densa di valore, ma è senz'altro meno complicata. E Facebook - ce lo dicono loro stessi - è una comunità sicura, poiché "le persone usano le proprie identità autentiche, [...] in modo che tutti sappiano sempre con chi si stanno connettendo" (mia enfasi, autocit.). Nessun problema dunque: luogo sicuro, persone sicure. Lo dicono loro.

E invece. E invece capita che da qualche giorno svolazzino delle voci di corridoio che parlano di un'applicazione Facebook in grado di garantire l'anonimato ai suoi utenti per permettere loro di dialogare liberamente, senza alcuna costrizione legata al problema di doversi rivelare pubblicamente: insomma, esporre senza esporsi. Quindi? Quindi il sicuro social network identitario invita i propri utenti a "nascondersi", in qualche modo: un po' come nei vecchi forum o nei gruppi di discussione in cui si discuteva -spesso con cognizione di causa- senza doversi per forza conoscere di persona. Questa nuova politica non fa un po' a pugni con il credo del vostro social network preferito? Forse no o molto più probabilmente sì, ma tant'è. E non è tutto: già da qualche tempo si parla anche di post personali "a tempo", ossia che hanno una validità temporale e poi svaniscono nel nulla. Mossa interessante: la gente crederà che mettendo un timer ad uno status update possa giustificarsi dicendo di non avere mai scritto questa o quella frase "particolare", pensando probabilmente alla favoletta secondo cui su Internet è possibile far sparire le cose, come con un cilindro magico. Tirare il sasso e nascondere la mano, ma ripresi in mondovisione: l'immagine è più o meno questa. Insomma, perché Facebook di colpo adotta questa nuova strategia? E' probabile che sia il "mercato" ad imporlo. Alcuni dei popolari concorrenti di FB come Twitter stanno riscuotendo un discreto successo che piano piano logora il dominio fin qui incontrastato dell'imperatore dei social. I dati sembrano confermare questa "fuga da Facebook", soprattutto relativamente ad una fascia d'età critica, quella dei teenager (in termini di marketing e generazione di profitti, una vera manna). Forse il desiderio di non esporsi più così pubblicamente o forse la necessità di scappare da una gabbia di contatti noti è la tendenza che si propone nuovamente, facendo sì che nell'universo di Internet si torni a puntare sulla qualità del contenuto generato e non sull'identità legata ad esso. E allora via all'introduzione di queste nuove caratteristiche: identificatevi o no, basta che restate sul nostro sito. Dev'essere questo il concetto di fondo che anima Facebook: d'altronde, bisogna accontentare tutti, ma proprio tutti. All'orizzonte c'è una nuova, forse definitiva espansione verso gli ultimi bacini sociali rimanenti, e per farlo bisogna portare avanti sottotraccia il progetto per portare Internet (e Facebook) all'umanità intera. D'altronde, lo si fa solo per il nostro bene, (a)no(nimo)?

lunedì 14 luglio 2014

TU CHIAMALE SE VUOI, EMOZIONI (ALTERATE)

Questa è la storia di un inganno bello e buono. Sissignori, non chiamatelo esperimento - tantomeno aggiungendoci l'aggettivo scientifico -, non chiamatelo un tentativo, una prova, una cosa "solo per vedere di nascosto l'effetto che fa (cit.)": no, questo è un inganno sulla pelle della gente, anzi, sulle bacheche dei profili degli utenti.
Di tanti, utenti. Provate a dirlo tutto d'un fiato: set-te-cen-to-mi-la. (Ok, così non è tutto d'un fiato, ma forse rende l'idea) Questo è il numero ufficiale stimato degli utenti Facebook sottoposti a, come dire, un esperimento - ma non dovevamo chiamarlo così, ricordate? - condotto attraverso il vostro social network preferito e pubblicato addirittura su una rivista scientifica. Settecentomila utenti: non sette, non settanta, non settecento. Qui si parla di intere città, di mini-metropoli, non di quattro gatti; pardon, utenti. L'obiettivo? Cercare di capire se i social network sono in grado di manipolare le emozioni e le reazioni emotive della comunità di utenti più grande che sia stata mai riunita. Intento nobile, non c'è che dire. Per raggiungere l'altissimo scopo alle centinaia di migliaia di iscritti a FB è stato centellinato, o comunque alterato, il flusso di notizie che appare nella propria bacheca. Ovviamente questa nuova "fruizione" dei contenuti rispondeva ad un algoritmo preciso, modellato sulla prosodia delle parole-chiave, ovverosia sul suo contenuto tendenzialmente positivo o negativo. Va da sé che un'alterazione di questo tipo risulti nella "selezione" di notizie a piacimento: e no, qui non si parla di notizie vere o false (almeno quello...), ma di notizie "brutte & buone" sapientemente portate sulle bacheche degli utenti-cavia per carpirne emozioni presumibilmente sotto forma di status e/o commenti. Al diavolo la sentiment analysis fondata sull'oggettività, insomma. In altre parole, estremizzando: se vivo ad Amburgo e mi vien bloccata la possibilità di fruire di notizie relative ai recenti eventi in Medio Oriente e mi si propinano solo notizie relative alla recente vittoria della Germania alla Coppa del Mondo di calcio beh, è facile star allegri. Viceversa, se la scientifica selezione dell'algoritmo propenderà verso la condivisione di meno meme e più notizie "serie", lo stato emotivo del fruitore tenderà ad essere con un mood più negativo.
Non è inganno questo? E nonostante ci sia il consenso degli utenti - volontario o involontario, visto che al momento dell'iscrizione al network si accettano i termini e le condizioni che non stan proprio tutti lì a leggere per filo e per segno - di fatto qui si parla di un'alterazione del "normale" utilizzo della piattaforma. E stiamo parlando del sito Web più celebre e influente della storia di Internet, non di un forum per sfigati. Oggi son settecentomila, e domani? E chi ci garantisce che non siano stati condotti altri studi "mirati", o che FB stesso non sia tutto impostato per manipolare il flusso dell'informazione e dell'emotività reattiva che ne consegue, con risultati facilmente immaginabili, visto che si parla di oltre un miliardo di utenti? Insomma, i "soliti" discorsi, da cui si possono trarre delle logiche conclusioni. E ben vengano, a questo punto, le inchieste delle autorità competenti per cercare di stabilire una verità. Un'altra verità, probabilmente: ne circolano altre, qui in Rete, influenzate da un algoritmo e qualche eminenza grigia. Sulla pagina principale di Facebook, quella di login, campeggia la frase "è gratis e lo sarà sempre". Sicuri che non si stia pagando comunque un certo prezzo?

martedì 17 giugno 2014

PERSONALITA' (TROPPO) PUBBLICHE

Individuare il carattere di una persona "solamente" dal proprio profilo Facebook? Una questione di carattere piuttosto semplice: basta incrociare un paio di dati e il gioco è fatto. Potenza delle informazioni digitali, della capacità di aggregazione e categorizzazione dei big data, un paio di algoritmi sparsi qui e lì ed è - meglio, può essere - piuttosto semplice scoprire tutto o quasi di una persona - meglio, di un profilo.
Quale sarà l'oscura magia che può far sì che una macchina possa scovare i tratti della personalità di una persona? Niente di più semplice: bastano i dati che volontariamente gli utenti scrivono sul vostro social newtork preferito. L'applicazione, realizzata dalla società Five Labs, scandaglia tutti i post di un utente, analizzando le semplici parole del vostro periodare: alcune saranno semanticamente più rilevanti di altre e verranno associate a uno dei cinque grandi tratti della personalità descritti da qualche luminare e impressi su qualche libro. A quel punto, è facile aggregare tutte le parole appartenenti ai vari gruppi, confrontare le frequenze assolute delle parole e quelle relative ai vari gruppi e voilà, in un attimo il programma sforna per voi il profilo caratteriale con tanto di percentuale/propensione verso un tratto o un altro. Di per sé un'idea semplicissima che crea un connubio perfetto tra potenza delle parole in libertà e la rigidità della frequenza matematica. In più, è possibile poi effettuare un confronto tra il proprio profilo e quello dei propri amici e -udite, udite - quello di importanti personalità (Occhio: pare funzioni solo in inglese. E just in case, funzionerebbe solo purché i propri post siano scritti in una lingua corretta, senza obbrobri grammaticali e/ortografici!): come se il presidente degli Stati Uniti si sia messo a fare anche lui il giochino della personalità, vabbè.
Insomma, l'ennesima dimostrazione che il potenziale linguistico gentilmente offerto dagli utenti FB è lì, pronto per essere sfruttato a proprio piacimento da altri. E, come se non bastasse, sulle capacità di carpire le informazioni è notizia recente la scelta, da parte di Facebook, di proporre inserzioni pubblicitarie attingendo dalle ricerche web effettuate da un utente sul proprio o sui propri dispositivi. In altre parole, le pubblicità che appariranno su FB saranno simili o correlate alle ricerche effettuate su - per esempio - siti di e-commerce o semplici ricerche su motori di ricerca. Anche qui, sarà sufficiente da parte degli algoritmi FB "pescare" informazioni già preesistenti per proporre inserzioni sulla stessa falsariga perché, a rigor di logica, ciò che si cerca è ciò che piace. Non è sempre vero ma ehi, la pubblicità è l'anima dell'economia. In realtà questo sistema di pubblicità mirata è un sistema dal meccanismo tanto semplice quanto non nuovo: è, in linea di massima, il sistema utilizzato da Google per far comparire su parecchi siti che concedono i propri spazi pubblicitari le ricerche da poco effettuate e rimaste memorizzate nelle memorie cache dei propri browser. Una tecnica piuttosto efficace, e di per sé non tanto invasiva: i dati memorizzati nei browser sono piuttosto semplici da eliminare, e cancellati quelli, non c'è possibilità che l'algoritmo possa ripescare la vostra ricerca di un auto o di un barbecue (suvvia, è quasi estate). Poco invasiva, appunto: quasi quasi stride con il modello Facebook. E forse qui casca l'asino. Perché la ricerca sui motori di ricerca è quasi esclusivamente anonima, mentre la stessa tecnica associata ad una profilazione già molto avviata può avere il suo perché, in termini commerciali. Insomma, se alla tecnica di ripescaggio informazioni si aggiunge l'analisi di informazioni personali, ecco che il prodotto è bello che servito. Pubblicità infallibili come risultato? Forse: ma è l'ulteriore prova che la pratica del crossing the data può arrivare nella parte più profonda di noi. O almeno, in quella digitalmente esposta di noi.

venerdì 6 giugno 2014

"CARTA" CANTA...

Internet, la libertà. La libertà di dire ciò che si vuole - prendendosi le proprie responsabilità, valutando ciò che si scrive, pensando alle possibilità che possono scaturirne: ma questa è un'altra storia -, la libertà di poter condividere potenzialmente con il mondo intero le proprie cose. In un mondo ormai dominato dai social network, in cui grandi portali di concessione di un profilo, di un nome o di uno pseudonimo categorizzano e schedano le nostre identità, esistono anche casi spinosi in cui non è tanto la logica personale a prevalere quanto quella puramente commerciale. Ah, Internet esisterebbe anche per fare piccoli-grandi-affari con il globo, se si ha un po' di organizzazione, fortuna e entusiasmo, e non solo per comunicare con il vicino o lontano di casa. Solo che aprirsi una vetrina digitale dei propri prodotti non è procedura da sbrigare e inventarsi una mattina: esistono delle regole, esistono delle procedure, ed esisterebbero in teoria anche degli organismi di controllo della diffusione dei cosiddetti "nomi su internet"- ma non li conosce nessuno, e anche se fosse, io voglio quel nome per il mio sito, punto. Ché la Rete sarà anche anarchica, ma qualcuno a tirare i fili della faccenda c'è. C'è sempre.
E c'è anche la solita faccenda dell'abuso di potere o di posizione superiore, e solo perché la legge del più forte di solito, vuoi o non vuoi, funziona sempre. Only the strong survive: in tempi digitali, si può dire che chi ha più big data ed è sulla bocca di più persone si può arrogare il diritto di non ascoltare gli altri e, in un certo senso, di infrangere le regole o considerarle solo quando fa più comodo.
La storia è questa: in un mercato digitale ormai dominato dagli store, grandi mercati in cui è possibile acquistare software per i propri dispositivi elettronici come computer e (soprattutto) smartphone e tablet, si affaccia un bel giorno un'applicazione dal nome tanto semplice quanto efficace, soprattutto per chi mastica la lingua della "perfida Albione": Paper, uno strumento per tirar fuori la parte graficamente più artistica degli utenti. Libera app in libero market, verrebbe da dire: e infatti, l'applicazione è apprezzata tanto da vincere anche il premio come miglior software-da-melafonino del 2012 e qualche altro riconoscimento qui e lì: non male, insomma; non l'ultimo dei software, ecco. E poi? E poi arriva Facebook, che nel corso del 2013 si inventa e lancia Paper, un'applicazione per condividere storie e notizie attraverso e grazie al vostro social network preferito. In un mondo normale no, le due applicazioni non dovrebbero avere lo stesso nome: possono anche avere obiettivi diversi, layout differenti, utenze agli antipodi ma no, in teoria il mercato su cui sono ospitate le applicazioni tende a differenziare i prodotti, quantomeno per ciò che riguarda la nomenclatura. Sicché, delle due l'una: Paper deve diventare in modo univoco il nome di una o dell'altra app. Vince la terza via, come spesso accade: Facebook si rifiuta di cambiare il nome al proprio prodotto - d'altronde il nome è tremendamente efficace, vale la pena ripeterlo - nonostante sia arrivato dopo, per cui varrebbe in teoria il principio del first come, first served, e non solo nel campo delle applicazioni digitali. E quindi Paper (quella di Facebook) è ancora lì, con il suo nome tremendamente efficace (già detto? Già detto): "l'altra" Paper, che poi sarebbe quella originale ma nell'immaginario collettivo magari no, continua a mantenere il suo nome ma ecco, c'è rimasta un tantino male ma è forse consapevole che contro i giganti è dura lottare.
La vicenda solleva il solito interrogativo, o quantomeno la riflessione secondo cui dove non arriva l'ingegno ci arrivano i potenti mezzi dell'essere potenti. L'episodio ricorda un po' la diatriba su un sito già legittimamente registrato ma "rubato" letteralmente da un omonimo più famoso. E ricorda che quando si è trattato di omonimia, il Signor Facebook ha già fatto valere le sue forti ragioni, anche per l'azienda che dirige. Che storia: da raccontare magari su Paper. L'altra, s'intende. Non quella originale.



martedì 15 aprile 2014

A(NON)BBBELLAAAAAA!

Gli immancabili studi scientifici che coinvolgono Facebook e dintorni: nuovo capitolo. Stavolta si punta il dito contro l'impressione che le donne hanno di sé prima e dopo il trattamento con il vostro social network preferito. I risultati? Secondo la ricerca, le donne tendono a percepire in modo peggiore il proprio corpo dopo aver effettuato lo scroll di status update, aggiornamenti e foto del proprio network. I motivi sono abbastanza comprensibili: è evidente che la vetrina rappresentata dai social network come (non?)rappresentazione del proprio ego scatena una spirale di confronto da cui le donne tendono ad uscirne con un'immagine di sé più negativa, vuoi dopo aver visto le foto della vacanza paradisiaca di un'amica di un'amica di un'amica o per l'acquisto di chissà quale borsa o vestito da parte di qualche (lontano) conoscente. Il "ribaltone" è questione di un attimo: prima si sentono fate, poi Facebook, indirettamente, dice loro: fate pietà!

martedì 8 aprile 2014

LEGGERE COSE LEGGERE

All'accusa frequente secondo cui "Internet fa male", "La Rete fa solo danni", "Bisognerebbe chiudere o filtrare il Web" (accusa mossa soprattutto dalle generazioni meno propense ad utilizzare e conoscere questi strumenti), la risposta forse più corretta sarebbe dipende, senza per forza scadere in una replica attendista. Dipende, già, perché è un mezzo a disposizione di tutti, e come tale è come se esistessero miliardi di esperienze diverse, alla cui responsabilità fa capo ogni singolo utente. Poi c'è un'altra accusa piuttosto frequente mossa a chi "è sempre davanti al computer" (o al cellulare: insomma, quei dispositivi lì), ossia che con Internet si è perso il gusto e soprattutto l'abilità di leggere, in particolare i libri. Vero. Cioè, vero in parte: è sicuramente corretto dire che i lettori - nel senso più classico del termine - sono in costante diminuzione, ma questo non vuol dire che leggano di meno. Forse leggono meno opere intere, di cui il feticcio libro è sicuramente l'emblema principale; allo stesso tempo, tuttavia, i nuovi strumenti digitali e quelli in Rete hanno cambiato l'esperienza di lettura in modo abbastanza radicale. Si legge meno in termini di quantità, ma forse si legge di più in termini di varietà e completezza delle informazioni, e poi grazie all'ipertestualità e alla multimedialità si può fare in modo da ricevere un'informazione chiara e precisa, con molteplici rimandi cognitivi (e anche sensoriali, perché no). Un video, un link (e un controlink), un'infografica, e anche un tweet e uno status fanno conoscenza, a loro modo. E qui torna la risposta iniziale: dipende dalla propria esperienza in Rete, cosa si va a cercare, quanto capillare è la ricerca, quanto varia è la stessa, quanto interesse si ha per determinati argomenti e così via. Non sarà un libro in più o in meno a fare la differenza, o almeno forse non la farà quanto la scoperta della Rete in tutto il suo buon potenziale. Insomma, si scopre anche che il nostro cervello si sta lentamente adattando a questa nuova esperienza di ricezione delle informazioni, per cui si scoprono dati secondo cui la lettura "digitale" aumenta la distrazione proprio in virtù di questa continua discontinuità di formati e testi; ciò è vero se rapportato con gli strumenti classici, per cui tornando al vecchio libro inconsciamente forse cerchiamo un link o un like da qualche parte. E' l'evoluzione della specie, che piaccia o non piaccia, che porti a miglioramenti o meno: penseremo in modo diverso, ci distrarremo e non porteremo a termine le cose che facciamo, e se lo faremo sarà solo colpa-o-merito di Internet e dei suoi derivati. E se non sarete arrivati in fondo a questo articolo, non vi biasimo affatto.

mercoledì 2 aprile 2014

A PESCI (D'APRILE) IN FACCIA

Il primo giorno di Aprile, da che mondo è mondo, è sinonimo di una cosa: il primo giorno del quarto mese dell'anno. No, scherzo. Appunto! Il pesce d'Aprile è proprio il giorno in cui ormai è sdoganata un po' dappertutto la pratica di fare scherzi a malcapitate vittime, e chissà perché poi. L'etimologia è incerta, ma che importa: l'essenziale è ingegnarsi per architettare uno scherzo coi fiocchi e controfiocchi. E, da qualche anno, non bastano gli scherzi ad amici e parenti: il Web è diventato un vero e proprio strumento (nonché un archivio) di diffusione di scherzi di massa. La cosa divertente, sotto un certo aspetto, è proprio l'ingegno profuso da molti nel cercare lo scherzo più improbabile e dall'effetto sorpresa più vasto possibile, segno di riuscita sicura della burla. E quindi, puntuale, arrivano le rassegne degli scherzi più riusciti trovati in giro per la Rete: dalle classiche funzionalità assurde di Google agli improbabili prodotti che non vedremo mai in circolazione, la lettura risulta sempre piacevole, almeno solo in quel giorno dell'anno. Insomma, è diventata una pratica abbastanza sdoganata, ma attenzione: l'effetto boomerang è sempre dietro l'angolo, soprattutto se si è un brand abbastanza diffuso e si fanno circolare certe notizie a mezzo social network, Facebook in particolare. E' un attimo: il popolo della Rete non perdona, che sia il primo di Aprile o Ferragosto.
La notizia è questa: un noto marchio di telefonia mobile presente in Italia annuncia il 31 marzo che dal giorno successivo avrebbe chiuso le pagine Facebook e Twitter dell'azienda, pagine che - non ci sarebbe neanche bisogno di spiegarlo - fungono da canale promozionale ma che di fatto diventano anche e soprattutto canali diretti di assistenza: una sorta di customer care a portata di bacheca. Apriti cielo: i clienti si scagliano contro la decisione e, già che ci sono, sputano un po' di livore nei confronti dell'azienda, lamentando questo o quel disservizio. Il day after non è dei migliori: nonostante si svelasse l'arcano del pesce, utenti & clienti continuano a prendere di mira l'azienda incuranti del messaggio iniziale, oppure parlando di tariffe gonfiate e disservizi come pesci d'Aprile non proprio graditissimi, ecco. Risultato? Non sono esperto di marketing (eh!) ma credo che la mossa si sia rivelata un tantinello controproducente, non foss'altro perché probabilmente hanno scelto il canale "peggiore" per poter veicolare il loro intento. Già, il popolo della Rete non perdona, ed è subito pronoa ad un (mediaticamente parlando) golpe scellerato.

venerdì 28 marzo 2014

PUGNO DI FERR(ARI)

Strano rapporto, quello tra i brand e i social network, Facebook in particolare. Strano in senso positivo, perché è indubbio il ritorno economico e di immagine che questi possono avere affidando ad un sicuro canale di diffusione i propri contenuti. Strano in senso negativo, perché lo stesso bacino di utenza un giorno è fedele e segue pedissequamente i dettami di un marchio, ma - date le dinamiche delle (il)logiche di mercato - il giorno dopo potrebbe voltare le spalle, riversando la propria contrarietà sullo stesso canale che utilizzavano per tessere le lodi. E' il brutto e il bello del "potere" di scrittura dato a tutti, con tutto quel che consegue quando si parla di veri e propri fenomeni di massa.
Nel rapporto tra marchio e clientela, dunque, bisogna considerare aspetti indubbiamente positivi e potenzialmente negativi, sperando che il bilancio penda da una parte per entrambe le componenti. Fidelizzazione e cura dei fan o semplice condivisione dei contenuti? E come comportarsi poi nei confronti della condivisione di contenuti soggetti a diritto d'autore? Tante sono le domande a riguardo e molto poche le risposte oggettive che si possono dare, proprio perché il marketing si è letteralmente spostato da canali tradizionali (in cui persino la pur recente - e sottostimata - newsletter sembra roba di un secolo fa) ad altri dal feedback più immediato. Che, pare, sia la cosa che più conta.
Insomma, tutto bene finché va bene, o finché non arrivano le prime grane. C'è un caso recente riportato da Il Post in cui un marchio "rampante" (anzi, il più forte al mondo) ha intrapreso un'azione legale nei confronti di un ragazzo per sfruttamento improprio di proprietà intellettuale. In teoria non ci sarebbe niente di inusuale, se non fosse che...se non fosse che la violazione sia stata effettuata su Facebook. La storia in poche parole: il ragazzo crea una sorta di fanpage del noto marchio automobilistico; la pagina diventa molto seguita; il brand se ne accorge e contatta il ragazzo per arrivare ad un accordo, attraverso una specie di contratto, che contempli la gestione della pagina per conto del marchio stesso; quest'ultimo alla fine scarica l'ex proprietario della pagina, assumendone il controllo (e la gestione della base di fan, ossia la cosa più importante); il ragazzo denuncia il marchio per appropriazione indebita di una specie di attività creata mattone dopo mattone - anzi, utente dopo utente - e di contro il brand lo controdenuncia per sfruttamento di proprietà intellettuale.
Non so dove sia la verità, ma una cosa è certa: con che basi si può pretendere che un marchio si arroghi il diritto di strappare dei contenuti altrui ospitati su una piattaforma non sua? Qui non si parla di un attacco al sito istituzionale del marchio, ma di una "semplice" pagina fan su un canale ESTERNO al brand stesso, che quindi è tanto ospite quanto il ragazzo che condivideva la sua passione. Troppo comodo fare marketing a costo strutturale pari a zero e con un ritorno non indifferente grazie ad "altri" (in questo caso Facebook) e pretendere a priori diritti fino ad un certo punto legittimi. A questo punto si spera che arrivi il proprietario di casa e si prenda il diritto di accaparrarsi tutto: ne ha facoltà, come probabilmente da accordi nei termini & condizioni. Un po' come il ragazzino che nelle partite per strada portava il pallone: la decisione delle squadre era sua, i rigori li batteva tutti lui, e lui decideva quando si tornava a casa. Tornare forse ai canali "proprietari" potrebbe rappresentare una soluzione per stare a...cavallino.

martedì 25 marzo 2014

TWITTA CHE TI PASSA(NO A PRENDERE)

Con l'avvento dei social network il "ritorno di flusso" dell'incredibile mole di informazione scambiata tra utenti e in aumento esponenziale è duplice: da una parte gli utenti, in grado di comunicare, dire la propria, ricercare informazioni proprio all'interno di questo grande contenitore che fa capo al nuovo concetto dei Big Data; dall'altro, invece, ci sono i fornitori dei servizi di queste piattaforme di espressione e condivisione, i quali possono attingere a piene mani da questa immensa raccolta di informazioni per fini prettamente commerciali (ma non solo loro, a quanto pare). Tra le piattaforme pubbliche di interscambio informativo - pubbliche intese come non private, ossia liberamente "consultabili" nella stragrande maggioranza dei casi -, la parte del padrone è rappresentata senza dubbio da Twitter, sito di microblogging e molto di più. Ma quanto di più, di preciso? Beh, questo dipende da quel che si vuole rivelare di sé in quei pochi caratteri a disposizione, ma spesso anche nel non-detto o nelle espressioni involontarie si possono estrapolare informazioni sensibili. I ricercatori di IBM hanno sviluppato un algoritmo in grado di leggere i tweet di un utente e di interpretarli in base a parole che, in un contesto di aggregazione dati, possono rivelare con una certa precisione la provenienza geografica del cinguettatore. Nomi, cose, città e altre piccole informazioni (e soprattutto gli hashtag, si immagina) contribuiscono a ricostruire il mosaico di un'identità digitale. Dunque, anche inconsciamente attraverso i social si tende a svelare il proprio io: non necessariamente una cosa negativa, ma come sempre dipende dall'uso e dai fini da conseguire da parte di terzi. Alcune di queste informazioni potrebbero andare nella direzione della ricerca "pura", e in questo senso, pensando alla stessa azienda che ha sviluppato questa formula, potrebbero andare ad alimentare (,) Watson, il supercervellone sviluppato dal colosso di Armonk che può diventare intelligente solo grazie al maggior numero di dati inseriti. Con chissà quale fine, poi: magari un algoritmo infallibile per scoprire anche il palazzo in cui abitiamo. Forse per quello ci vorrebbe più di un tweet: viene in mente per caso un altro social network in cui si tende a condividere proprio tutto?

lunedì 24 marzo 2014

CHIP...ARLA A VUOTO POI SI PENTE

La dieta cinese, si sa, gode di una reputazione non proprio unidirezionale, soprattutto nelle culture occidentali: insomma, girano sempre delle strane voci a proposito del cibo mandarino (no, non il frutto), soprattutto per ciò che riguarda la provenienza dei cibi e il non sempre match esatto tra quel che viene proposto e quel che poi finisce effettivamente nel piatto dei clienti. E poi, parliamoci chiaro, c'è sempre quella storiella che gira a proposito di cani e gatti che un giorno gironzolano intorno ai ristoranti cinesi e poi di punto in gia...in bianco spariscono. Così, senza un apparente perché: forse per evadere dal loro stile di vita un po' piatto, forse per trovare un secondo impegno o un'attività di contorno. Il sottoscritto non ha assolutamente un'idea a riguardo sulla faccenda, però immagina quel che possa circolare in merito sui social, in particolare sul vostro social network preferito. D'altronde tutti parlan male dei ristoranti cinesi, però poi son (quasi) tutti lì a frequentarli. E infatti non a caso una notizia (poi rivelatasi fasulla) di un microchip di cane trovato all'interno di una pietanza cinese ha ovviamente fatto il giro delle bacheche, finendo poi sotto gli occhi (a mandorla) del proprietario del ristorante, il quale ha giustamente denunciato l'accaduto. Risultato? Una sacrosanta denuncia per diffamazione.
Ora, qualche riflessione in merito, sempre tra il serio e il faceto (come spesso accade in queste pagine). La prima: data la confusione che regna nel Web e nella conseguente giurisprudenza, leggere di una ''diffamazione aggravata a mezzo Internet'' fa capire che anche (e soprattutto) la Rete è un pericoloso mezzo di disinformazione, se usato in malafede. Dunque, una condanna di questo tipo potrebbe e dovrebbe far drizzare qualche antenna e quietare qualche tastiera, o almeno si spera. La seconda: chi lo dice che il microchip fosse di un cane? A memoria ricordo una storia di circuiti integrati impiantati anche negli umani, per cui è inutile puntare il dito in un piatto che potrebbe non contenere delle zampe. La terza: dato che si parla di chip, il mezzo migliore per la diffusione della (non) notizia sarebbe stato un cinguettio su Twitter, no? La quarta: credo che la persona che ha ricevuto la denuncia, alla fine della storia, non abbia molto...riso.

domenica 23 febbraio 2014

SAY WHAT(SAPP)??

Dialogo immaginario dalle parti di Palo Alto, California, Usa.

***
Mark (nome immaginario): A rapporto, ragazzi. Ho da parlarvi.
John (nome immaginario), bisbigliando: Ho sempre paura quando ha da parlarci.
Phil (nome immaginario), bisbigliando: Non lo dire a me. Sentiamo che vuole questa volta.


(Continua)

domenica 2 febbraio 2014

NON C'E' PIU' RELIGIONE...

...Beh, c'è pur sempre il supplente. Scherzi (pessimi) a parte, il detto non è propriamente vero, soprattutto se si parla di interazioni digitali e di social network in particolare. Le tematiche e le discussioni di carattere religioso sono tra gli argomenti più odiati e irritanti a detta degli utenti del vostro social network preferito, o almeno a detta degli utenti inglesi. D'altronde è un dato che ci può stare, visto che l'intensità (o l'assenza) della fede è quanto forse più ci caratterizza e ci differenzia come esseri umani. Solo che in questo caso la fede ultraterrena batte altri tipi di convinzioni personali, cioè quella molto terrena rappresentata dalla politica e quella "di campo" rappresentata dallo sport, e in particolare il calcio in Italia (ma anche nel Regno Unito, patria del football). Irritante o no, forse è il modo in cui ci si espone sulle bacheche a poter fare la differenza: gli estremismi quasi mai piacciono, oppure son graditi solo per accendere discussioni quasi mai costruttive. E, in questo caso, non c'è argomento che tenga, credeteci.

sabato 1 febbraio 2014

QUEREL-IKE

Siamo ormai in un mondo in cui bisogna attentamente dosare quel che si fa e si dice. La cosiddetta società "civile" non ammette che si proferiscano determinate offese al prossimo, anche se poi in certi casi l'interpretazione della legge si fa più oscura in termini di interpretazione. Ma si sa, ingiuria volant, mentre ciò che si scrive rischia di rimanere impresso in maniera molto più incisiva. Con l'inchiostro digitale (leggi: l'avvento della Rete) il pericolo di incappare in motivi di querel(l)e si è fatto esponenzialmente più alto, "merito" anche dei social network su cui è molto semplice e facile esprimere opinioni scritte. E l'importanza di tali canali è talmente incidente al punto che il reato di diffamazione attraverso Facebook e soci è equiparabile a quelle "ufficiali" a mezzo stampa.
E poi, come al solito, si arriva anche oltre. Può ormai non essere neanche più sufficiente scrivere per incappare in qualche reato: ormai può bastare anche un semplice like. E' successo di recente a Parma, o meglio, su una bacheca virtuale nei pressi della città Ducale: una discussione come tante altre su Facebook tra due donne, e poi sotto uno degli interventi (evidentemente offensivi nei confronti dell'altra persona) un mi piace di un signore, terzo incomodo nella discussione. Ebbene, questa dichiarazione di apprezzamento al commento negativo rischia di portare in tribunale l'uomo, accusato di diffamazione, peraltro aggravata. Magari le due donne si saranno dette qualsiasi cosa, ma tutto evidentemente è accessorio rispetto al gradimento della voce fuori dalla lite. Sono nuove interpretazioni della legge, che fan restare basiti chi legge questi episodi.

mercoledì 8 gennaio 2014

ATTACCHI INDIFENDIBILI

Giova sempre ripeterlo, perché in certe occasioni non fa mai male: ci sono delle regole - spesso non scritte - che fanno la differenza tra il buon uso di Internet e un certo uso di Internet. La capacità di dare a tutti, ma proprio a tutti uno spazio su cui scrivere pensieri, micro-battute, commenti e opinioni non è nata con i social network, Facebook in testa. No, il vostro social network preferito e altre piattaforme come Twitter o Youtube hanno solo estremizzato - o se volete ampliato, democratizzato - questa possibilità. La Rete si evolve in fretta e bastano pochi anni, a volte anche meno per cambiare le regole dell'interazione: il Web partecipativo è "invenzione" da non attribuirsi a Facebook e soci, poiché gruppi di discussione, forum e i primi, rivoluzionari "commenti dei lettori" sui siti di informazione hanno rappresentato una prima, essenziale rappresentazione del concetto di network e quanto mai portatrice di valori contenutistici. Con l'avvento dei social, invece, si è assistita ad una vera e propria esplosione dell'interazione: chi ha avuto da dire ha continuato a farlo, chi non aveva nulla da dire ha detto comunque. E apriti cielo. La (quasi) totale assenza di controllo e filtro sui contenuti generati fa sì che FB o Twitter siano in alcuni casi delle vere e proprie piazze dell'insulto, delle cloache dell'offesa: troppo facile dire certe cose "protetti" da uno schermo, sapendo che il più delle volte la si può far franca. E capita poi che persino siti autorevoli blocchino la possibilità di condivisione di conoscenza per via della "solita" minoranza cattiva che, come spesso accade, rovina tutto. Ci vorrebbe moderazione, nel senso che forum e più in generale le community di utenti sono tutte "controllate" per garantire una certa qualità dell'informazione, anche nei contenuti generati dagli utenti: ci vorrebbe una moderazione, appunto . Si chiama rispetto delle regole (o delle policy, fate voi), non censura: vuoi scrivere sul mio spazio? Sei il benvenuto, ma queste son le regole. Altrimenti ti apri uno spazio tutto tuo. O altrimenti, vai a dire la tua in quel gran calderone chiamato Facebook. Lì magari puoi sentirti libero e augurare il male peggiore al tuo peggior nemico, o al tuo amico nel frattempo diventato nemico. Chissà se poi certi comportamenti sono replicati dalle stesse persone nella vita vera: è questione di educazione alla Rete, ma come spesso succede, ancor prima di pura e semplice educazione.

lunedì 6 gennaio 2014

PUBBLICAMENTE PRIVATO

Anno nuovo e vita vecchia, almeno per ciò che riguarda il sempre intramontabile rapporto che sussiste tra i social network e l'uso e sfruttamento dei dati personali degli utenti. A finire sotto la lente di ingrandimento stavolta c'è la funzionalità forse più privata che pare sia stata privata della sua "segretezza": si tratta dei messaggi diretti, i messaggi privati insomma, i quali sembrano siano letti non solo da un destinatario. Due utenti Facebook hanno intentato una class action contro il vostro social network preferito reo, a loro detta, di monitorare il contenuto dei messaggi non pubblici per i soliti fini commerciali. Insomma, se tra amici ci si scambiano commenti negativi sulla squadra di calcio che più si odia si rischia di vedere tra gli annunci correlati qualche pubblicità relativa proprio alla compagine non amata - d'altronde si spera che i sistemi informatici non siano così intelligenti da capire la prosodia della parola chiave - o magari nel comunicare qualche "notizia bomba" si rischia di finire per essere tacciati di chissà quale attività sovversiva. A questo punto bisognerebbe capire dove finisce il concetto di "privato" su piattaforme digitali che di fatto, quale che sia il tipo di scambio o condivisione di dati, si impossessano della mole di byte scambiati sui propri server. E' vero, si tratta di informazioni teoricamente chiuse e che dovrebbero restare confidenziali tra un solo mittente e un solo destinatario, ma questa sicurezza non ce la può fornire nessuno, e dunque bisogna fidarsi di questi giganti del Web. I dati digitali, per la propria natura, sono un inchiostro praticamente indelebile, a maggior ragione se trasmessi attraverso sistemi di comunicazione a distanza: considerando le ultime vicende relative al monitoraggio dei dati - ufficialmente per motivi di sicurezza - da parte di organizzazioni governative (non ultima quella che punta il dito contro noti smartphone facilissimamente monitorabili in tutte le loro attività - beh, e dove sarebbe la novità?) il confine tra comunicazione privata condivisa con attori sempre più invisibili quanto presenti è sempre più sottile. Non per questo, meno preoccupante.