venerdì 28 marzo 2014

PUGNO DI FERR(ARI)

Strano rapporto, quello tra i brand e i social network, Facebook in particolare. Strano in senso positivo, perché è indubbio il ritorno economico e di immagine che questi possono avere affidando ad un sicuro canale di diffusione i propri contenuti. Strano in senso negativo, perché lo stesso bacino di utenza un giorno è fedele e segue pedissequamente i dettami di un marchio, ma - date le dinamiche delle (il)logiche di mercato - il giorno dopo potrebbe voltare le spalle, riversando la propria contrarietà sullo stesso canale che utilizzavano per tessere le lodi. E' il brutto e il bello del "potere" di scrittura dato a tutti, con tutto quel che consegue quando si parla di veri e propri fenomeni di massa.
Nel rapporto tra marchio e clientela, dunque, bisogna considerare aspetti indubbiamente positivi e potenzialmente negativi, sperando che il bilancio penda da una parte per entrambe le componenti. Fidelizzazione e cura dei fan o semplice condivisione dei contenuti? E come comportarsi poi nei confronti della condivisione di contenuti soggetti a diritto d'autore? Tante sono le domande a riguardo e molto poche le risposte oggettive che si possono dare, proprio perché il marketing si è letteralmente spostato da canali tradizionali (in cui persino la pur recente - e sottostimata - newsletter sembra roba di un secolo fa) ad altri dal feedback più immediato. Che, pare, sia la cosa che più conta.
Insomma, tutto bene finché va bene, o finché non arrivano le prime grane. C'è un caso recente riportato da Il Post in cui un marchio "rampante" (anzi, il più forte al mondo) ha intrapreso un'azione legale nei confronti di un ragazzo per sfruttamento improprio di proprietà intellettuale. In teoria non ci sarebbe niente di inusuale, se non fosse che...se non fosse che la violazione sia stata effettuata su Facebook. La storia in poche parole: il ragazzo crea una sorta di fanpage del noto marchio automobilistico; la pagina diventa molto seguita; il brand se ne accorge e contatta il ragazzo per arrivare ad un accordo, attraverso una specie di contratto, che contempli la gestione della pagina per conto del marchio stesso; quest'ultimo alla fine scarica l'ex proprietario della pagina, assumendone il controllo (e la gestione della base di fan, ossia la cosa più importante); il ragazzo denuncia il marchio per appropriazione indebita di una specie di attività creata mattone dopo mattone - anzi, utente dopo utente - e di contro il brand lo controdenuncia per sfruttamento di proprietà intellettuale.
Non so dove sia la verità, ma una cosa è certa: con che basi si può pretendere che un marchio si arroghi il diritto di strappare dei contenuti altrui ospitati su una piattaforma non sua? Qui non si parla di un attacco al sito istituzionale del marchio, ma di una "semplice" pagina fan su un canale ESTERNO al brand stesso, che quindi è tanto ospite quanto il ragazzo che condivideva la sua passione. Troppo comodo fare marketing a costo strutturale pari a zero e con un ritorno non indifferente grazie ad "altri" (in questo caso Facebook) e pretendere a priori diritti fino ad un certo punto legittimi. A questo punto si spera che arrivi il proprietario di casa e si prenda il diritto di accaparrarsi tutto: ne ha facoltà, come probabilmente da accordi nei termini & condizioni. Un po' come il ragazzino che nelle partite per strada portava il pallone: la decisione delle squadre era sua, i rigori li batteva tutti lui, e lui decideva quando si tornava a casa. Tornare forse ai canali "proprietari" potrebbe rappresentare una soluzione per stare a...cavallino.

martedì 25 marzo 2014

TWITTA CHE TI PASSA(NO A PRENDERE)

Con l'avvento dei social network il "ritorno di flusso" dell'incredibile mole di informazione scambiata tra utenti e in aumento esponenziale è duplice: da una parte gli utenti, in grado di comunicare, dire la propria, ricercare informazioni proprio all'interno di questo grande contenitore che fa capo al nuovo concetto dei Big Data; dall'altro, invece, ci sono i fornitori dei servizi di queste piattaforme di espressione e condivisione, i quali possono attingere a piene mani da questa immensa raccolta di informazioni per fini prettamente commerciali (ma non solo loro, a quanto pare). Tra le piattaforme pubbliche di interscambio informativo - pubbliche intese come non private, ossia liberamente "consultabili" nella stragrande maggioranza dei casi -, la parte del padrone è rappresentata senza dubbio da Twitter, sito di microblogging e molto di più. Ma quanto di più, di preciso? Beh, questo dipende da quel che si vuole rivelare di sé in quei pochi caratteri a disposizione, ma spesso anche nel non-detto o nelle espressioni involontarie si possono estrapolare informazioni sensibili. I ricercatori di IBM hanno sviluppato un algoritmo in grado di leggere i tweet di un utente e di interpretarli in base a parole che, in un contesto di aggregazione dati, possono rivelare con una certa precisione la provenienza geografica del cinguettatore. Nomi, cose, città e altre piccole informazioni (e soprattutto gli hashtag, si immagina) contribuiscono a ricostruire il mosaico di un'identità digitale. Dunque, anche inconsciamente attraverso i social si tende a svelare il proprio io: non necessariamente una cosa negativa, ma come sempre dipende dall'uso e dai fini da conseguire da parte di terzi. Alcune di queste informazioni potrebbero andare nella direzione della ricerca "pura", e in questo senso, pensando alla stessa azienda che ha sviluppato questa formula, potrebbero andare ad alimentare (,) Watson, il supercervellone sviluppato dal colosso di Armonk che può diventare intelligente solo grazie al maggior numero di dati inseriti. Con chissà quale fine, poi: magari un algoritmo infallibile per scoprire anche il palazzo in cui abitiamo. Forse per quello ci vorrebbe più di un tweet: viene in mente per caso un altro social network in cui si tende a condividere proprio tutto?

lunedì 24 marzo 2014

CHIP...ARLA A VUOTO POI SI PENTE

La dieta cinese, si sa, gode di una reputazione non proprio unidirezionale, soprattutto nelle culture occidentali: insomma, girano sempre delle strane voci a proposito del cibo mandarino (no, non il frutto), soprattutto per ciò che riguarda la provenienza dei cibi e il non sempre match esatto tra quel che viene proposto e quel che poi finisce effettivamente nel piatto dei clienti. E poi, parliamoci chiaro, c'è sempre quella storiella che gira a proposito di cani e gatti che un giorno gironzolano intorno ai ristoranti cinesi e poi di punto in gia...in bianco spariscono. Così, senza un apparente perché: forse per evadere dal loro stile di vita un po' piatto, forse per trovare un secondo impegno o un'attività di contorno. Il sottoscritto non ha assolutamente un'idea a riguardo sulla faccenda, però immagina quel che possa circolare in merito sui social, in particolare sul vostro social network preferito. D'altronde tutti parlan male dei ristoranti cinesi, però poi son (quasi) tutti lì a frequentarli. E infatti non a caso una notizia (poi rivelatasi fasulla) di un microchip di cane trovato all'interno di una pietanza cinese ha ovviamente fatto il giro delle bacheche, finendo poi sotto gli occhi (a mandorla) del proprietario del ristorante, il quale ha giustamente denunciato l'accaduto. Risultato? Una sacrosanta denuncia per diffamazione.
Ora, qualche riflessione in merito, sempre tra il serio e il faceto (come spesso accade in queste pagine). La prima: data la confusione che regna nel Web e nella conseguente giurisprudenza, leggere di una ''diffamazione aggravata a mezzo Internet'' fa capire che anche (e soprattutto) la Rete è un pericoloso mezzo di disinformazione, se usato in malafede. Dunque, una condanna di questo tipo potrebbe e dovrebbe far drizzare qualche antenna e quietare qualche tastiera, o almeno si spera. La seconda: chi lo dice che il microchip fosse di un cane? A memoria ricordo una storia di circuiti integrati impiantati anche negli umani, per cui è inutile puntare il dito in un piatto che potrebbe non contenere delle zampe. La terza: dato che si parla di chip, il mezzo migliore per la diffusione della (non) notizia sarebbe stato un cinguettio su Twitter, no? La quarta: credo che la persona che ha ricevuto la denuncia, alla fine della storia, non abbia molto...riso.