giovedì 10 gennaio 2013

LA POLITICA DEI TWEET

Le prossime elezioni politiche in Italia sono alle porte. Tempo (si spera) di rinnovamento, o quantomeno l'augurio è che il popolo nostrano possa esprimere democraticamente la propria volontà per dare un nuovo corso alla propria storia. Fervono dunque i preparativi per allestire al meglio la campagna elettorale,e tutti - ma proprio tutti - i media sono un tourbillon di dichiarazioni, affermazioni, smentite, liti e promesse. Non può - e non può essere altrimenti - essere esente la Rete, allo stato attuale anche un'ottima cassa di risonanza per tastare il polso del sentimento dell'elettorato. E, non c'è neanche bisogno di rimarcarlo, la "voce grossa" la fanno i social network, autentiche agorà del nuovo millennio.
La storia recente insegna: sui social si può far presa, si può essere incisivi, si può affondare il colpo finale che può portare la vittoria all'ultimo voto. Certo, si può anche sbagliare (e la Rete, si sa, non perdona), ma è un rischio consapevole per chi, per il bene del Paese, deve metterci la faccia. Il punto è che praticamente la politica s'è spostata in massa sui social network, in barba a Parlamenti, piazze, salotti tv (hmm no, questi ultimi in realtà hanno ancora poltrone ben imbottite pronte ad accogliere un po' tutti). E il giornalismo d'informazione si bea della situazione, poiché, tra un affare pubblico-personale ed un altro - ha di che parlare da qui fino alle prossime elezioni (beninteso: non queste imminenti, le prossime ancora).
Sentito ieri in radio: il problema non sono i social network, ma l'uso che se ne fa. Sacrosanto, direi. Non l'ha detto un politico, ma uno (stimato e poco social per sua stessa ammissione e carattere) conduttore. Già, perché i politici sembrano ben lungi dallo starne fuori: ormai devono esser dentro, non foss'altro per non dare un'immagine imbolsita di se stessi, o per non fare ciò che fanno gli avversari. Dopo la diffusione di un account fasullo si è cimentato con i cinguettii anche il premier uscente. Obiettivo? Diffondere in maniera sintetica il suo programma, anche se probabilmente la sensazione è che sia più a proprio agio con il concetto di account contabile rispetto a quello digitale. Poi c'è chi "vorrebbe ma non può", o meglio, che sceglie il social network sul quale presenziare in base ad una sintetica "analisi del sentimento", ignorando forse che sia sul "cattivo" Twitter che sul "buon" Facebook non ci si può sottrarre alla gogna mediatica. C'è addirittura (ma qui si sfocia in campo internazionale) chi rinuncia alla presenza sui social network, forse perché la politica è ancora quella delle piazze o forse per manifesta ammissione di non conoscenza del mezzo (in tal caso, viva la sincerità).
Insomma, il rischio è che da qui fino alla fine di febbraio se ne sentiranno (e leggeranno) delle belle: a farla da padrone potrebbero essere le dichiarazioni vacue solo per far presenza, e non i Contenuti. Magari si può dar retta a chi della politica e di Twitter e affini ha capito veramente tutto: potrebbe essere una scelta che paga. O ci si può unire nell'ultimo, inevitabile movimento politico: il popolo di Facebook, un partito popolare (in senso completo) pronto a conquistare le bach...ehm, gli scranni del potere. Sì, la politica dei tweet è(ra) una cosa seria.

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